La scuola e gli italiani.

 

Quando un bambino può essere considerato italiano ed avere perciò diritto alla cittadinanza?

Facciamo il mio caso.
Sono nato a Torino nel 1957 da genitori veneti immigrati qui per trovare un futuro migliore dopo il loro matrimonio nella terra d'origine. Quindi sono un primogenito di etnia veneta nato in terra estranea, anche se non per questo straniera. I miei primi anni sono passati da veneto, la lingua che parlavo con i miei genitori, poi è arrivata la scuola. L'asilo no, perché mia madre non lavorava allora e io preferivo senz'altro stare tutto il tempo con lei. Dicevamo la scuola. Le elementari sono passate in stile De Amicis: primi due anni con maestre, con cui non mi sono trovato per niente bene, e per fortuna gli ultimi tre anni con il maestro Isabella, un colto e gentile calabrese, molto rigido nell'educazione, ma con un senso della giustizia ammirevole. Lo ricordo ancora oggi con affetto. In classe eravamo divisi tra bambini del Nord e del Sud. Noi del Nord più giuggioloni, quelli del Sud più scafati e prepotenti, almeno quelli teppistelli, perché ricordo ancora un bambino napoletano gentile e dolce come nessuno, il quale infatti preferiva stare con noi. Si veniva spesso alle mani. Il maestro però riportava sempre tutto all'ordine con poche parole e gesti. Lo rispettavamo tutti. Alla fine delle elementari si percepiva il miracolo: ci siamo arrivati tutti italiani, non importa di dove provenissero le nostre lingue e culture d'origine. Avevamo una storia in comune, delle regole condivise, un'educazione unica.

Alle medie, da poco riformate, questa vicenda non si interrompe, anzi. Ormai l'italiano era la nostra lingua e tutti lo padroneggiavamo a sufficienza per lasciare le lingue d'origine solo alla parlata familiare, con qualche fatica devo dire da parte dei piemontesi che ogni tanto si lasciavano scappare espressioni intraducibili correttamente in italiano. Questa era però una ricchezza. Imparavamo subito che ogni lingua è una visione del mondo e l'italiano poteva fare da ponte, ma non eliminare le tante sfumature delle nostre parlate d'origine. Il nostro docente di italiano, in una scuola non centrale, era un fior di intellettuale: il professor Ciarpaglini. Laureato con il massimo dei voti a Firenze, sua città natale, anche con esperienza di insegnamento dell'italiano in Germania. Premiava volentieri i meritevoli con libri. Conservo gelosamente un'edizione dell'Eneide e una sull'impresa dei Mille, entrambe dedicate. Penso che l'amore per l'italiano che ancora provo, sia tutta colpa sua.

Si imparava comunque senza uscire dalla scuola, e nemmeno da Torino, ad essere cittadini del mondo, perché l'Italia era per noi come un piccolo pianeta pieno di usi, costumi, culture e lingue diverse che vivevano a volte a pochi chilometri l'una dall'altra. Le regioni all'epoca non esistevano, se non sulla carta geografica, e in realtà per me non esistono nemmeno oggi perché sono molte di più di quelle ufficiali, decine e decine. Tutte affascinanti, per un motivo o per l'altro.

Penso che qualsiasi bambino di qualsiasi parte del mondo non possa non sentirsi italiano dopo una scuola così. Nel senso migliore, patriottico, di amore per la cultura, la gente e la terra in cui si vive, senza competizione alcuna con la cultura, la gente e la terra da cui si proviene o provengono i propri genitori. Quindi la cittadinanza non è solo auspicabile, ma proprio dovuta. Un diritto inalienabile.
L'unico dubbio è però se la scuola italiana sia ancora in grado di assolvere a questo compito. In questo tempo oscuro dove l'educazione e l'identità sono acquisite nel frammentato e selvaggio mondo delle relazioni virtuali incontrollate. Lo spero fortemente e comunque lo Ius Scholae, in attesa di tempi maturi per lo Ius Soli, mi pare una scommessa inevitabile se questa espressione geografica chiamata Italia vorrà ancora avere un futuro all'altezza del suo passato, nelle anime e nelle vicende degli umani che avranno la fortuna di viverci.

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