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Dallo scorso autunno ripenso sempre più spesso al mio percorso di fotografante.

Dal piacere dei primi scatti consapevoli, lontani ormai oltre quattro decenni, a quello provato poco fa. Un gesto ripetuto così tante volte da sembrarmi infinito, o meglio finito con la mia inevitabile finitezza di compierlo. Il dito indice destro sul pulsante, l'occhio sinistro al mirino o entrambi se ci sono uno schermo o un display per mirare. A volte, più frequentemente un tempo, aggirarsi come un Cireneo con il treppiede in spalla, di notte, ma anche di giorno quando usavo il grande formato, fino a una dozzina di anni fa.

Dove sono andato, dove sono arrivato? Da nessuna parte. Ho vagato di fotografia in fotografia, come una farfalla ubriaca. Applausi a questa danza ne ho avuti, ma non è cambiata, non poteva. Tutto quello che mi serve è questo. L'ho avuto fin dall'inizio e ce l'ho ancora. Davvero pochissime fotografie le ho prese apposta, senza inciamparci mentre vivevo. Una forma di esistenza, una libertà dello sguardo e del respiro.

Per me è tutto qui e rimane tutto qui. Non so perché, non lo saprò mai, ma continuo ancora a prendere una fotocamera in mano mentre cammino la vita. Anche se mi dico ora basta, smettila, sei un maniaco ossessivo compulsivo. Dura poco, fino alla prima tentazione. Click.

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