A viver come bruti.
Insomma sono passati settecento anni esatti da quando il sommo poeta è finalmente entrato nella sua opera per sempre. Molto probabilmente all'inferno.
Non mi addentro oltre la selva oscura, non ne ho la competenza e mai ne ho avuto il desiderio. Letture rapide, a macchia di Leopardi, perché il soggetto della commedia non mi attrae. L'inferno esiste sicuramente, ma non sta dopo la morte bensì qui tra di noi, ogni giorno. Il verso poetico poi è troppo intenso per me. Sopravvivo a stento alla prosa, a patto che non sia troppo intrecciata in pasticciacci brutti o addosso a degli Ulisse irlandesi. Cose brevi, dirette, chiare.
Eppure, conservo e sfoglio una vecchia edizione della commedia illustrata dal Dorè. Lì sì che mi perdo davvero. Niente da fare, guardare le figure è tutto quello che mi basta per addentrarmi nella mente. La mia. Una tautologia verbale. La mente non è mia, si descrive come mia. Un coacervo chimico fisico che genera mostri. Quelli che popolano l'eternità degli inferi e in realtà corrono nelle sinapsi. L'eternità non esiste, nemmeno quella universale temo. Chimica, fisica, transitorietà in trasformazione incessante. E noi, lì per un tempo dato, non si sa quale. Dante questo mi dice. Nel tuo tempo vivi dove senti di stare e se non vuoi che sia un inferno, muoviti per rimediare finché c'è vita. Oppure brucia e infine muori. Già così è tanto e da settecento anni non è cambiato niente. Dante, un genio davvero.