Parole, parole, parole.

Se c'è un effetto collaterale fotografico della pandemia, che mi tocca particolarmente, è lo tsunami di parole che sommergono le fotografie sulla rete. Prima dell'evento tragico in cui siamo ancora coinvolti, leggevo sovente le lamentele sull'eccessivo, strabordante, incalcolabile numero di fotografie che ogni giorno si condividevano sui social con tutte le nefaste conseguenze sulla qualità culturale e persino artistica che calavano a picco rispetto ai bei tempi andati quando dovevi implorare un editore, un gallerista, un critico, un Bertoncelli o un prete (cit.), perché si accorgessero di te e del tuo lavoro per darti modo di farlo conoscere ad altri che non fossero la tua mamma e i tuoi amici. Adesso, mentre miliardi di fotografie continuano a circolare si aggiungono però miliardi di miliardi di parole che si prendono la rivincita sulle immagini e si affollano le dirette, le conversazioni, le conferenze, le esercitazioni critiche ecc. ecc. Siamo caduti dalla padella visiva alla brace verbale.


Probabilmente con la nuova normalità del dopo vaccini, le parole torneranno al loro viaggio carsico fatto di incontri diretti e poco altro, con un certo respiro telematico, anche perché già leggere dei testi non è sempre uno spasso, ma dover ascoltare discorsi da chi non è abituato a parlare in pubblico può essere pure peggio.

In ogni caso, in attesa di tempi più silenziosi, trovo che proprio le diluvianti immagini diano se non altro ancora del respiro. Le scorri, le guardi, le scegli e non ti riempiono la testa di chissà quali teorie. La rete non è un posto per onniscienti, ma per pazienti raccoglitori di essenze rare, che esistono, e nella distrazione generale per fortuna continuano a fiorire negli anfratti meno battuti dei social, basta saperle trovare.

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