Bologna, un focolaio di infezione.


Ieri sera da Phos a Torino è tornato il 1977.
Un dialogo sul desiderio tra il gallerista d'arte contemporanea Guido Costa e il semiologo Ugo Volli ha riannodato dei fili mai spezzati. Il 23 settembre 1977 Guido Costa festeggiava i suoi vent'anni proprio a Bologna, durante il primo "Convegno internazionale contro la repressione" che riuniva tutte le anime del Movimento del '77. C'era anche Ugo Volli. Costa esprimeva un dissenso radicale verso i modelli sociali imposti che lo spingerà nell'ambito della cultura più estrema, attraversando il punk  e tutti i ribellismi lì attorno fino ad approdare alla sua politica galleristica che si può definire di ispirazione romantica. Il secondo evolverà invece verso approdi classicisti, illuministi e quindi liberali.

Per Costa il desiderio è un'urgenza bruciante, motore fondante della vita, senza il quale c'è solo sopravvivenza rassegnata in attesa della morte biologica. Per Volli il desiderio è l'inizio di un percorso lungo e complesso che tenderà alla sua realizzazione o meno a seconda di quanto il desiderante saprà superare gli inevitabili ostacoli. Con entusiasmo, con passione certo, ma soprattutto con razionalità. Chi ha ragione? La tragedia è che ce l'hanno entrambi, secondo me. La dicotomia tra l'urgenza che spinge al tutto e subito e la ragione che porta ad un percorso complesso di tentata realizzazione è parte dell'umanità da sempre. Se guardiamo all'individuo prevale l'urgenza, se guardiamo al sociale l'unica concreta via è quella razionale.

In quei giorni a Bologna c'ero anch'io. I miei vent'anni li avevo già festeggiati 45 giorni prima. Lì c'ero andato come militante extraparlamentare più o meno collocato nell'area della IV Internazionale, gruppo dominante nei Licei e nelle Accademie d'arte di allora. Avevo però forti sfumature anarco-individualiste che mi mantenevano nella posizione del "cane sciolto", durata poi fino ad ora. La mia urgenza personale era difatti la libertà, l'indipendenza da qualsiasi potere sociale, economico e politico. Un asintoto, lo so, ma un'indicazione di rotta a cui non ho mai rinunciato.

Alla fine dell'incontro ho "desiderato" far sapere ai relatori che c'ero anch'io a Bologna con loro. Ho detto che capisco la posizione di Guido Costa, anche se mi sento vicino a Ugo Volli, ma soprattutto che per me quei giorni sono stati il vero inizio degli Anni di piombo e con essi della fine di ogni speranza del '77. A forza poi di spaventare tutti con i bisogni urgenti e le ribellioni armate siamo arrivati oggi al salvinismo melonaro. Qualcosa non ha funzionato e sarebbe davvero ora di farci ben ben i conti.

Ripensando alla conferenza, ho rovistato nei miei carteggi e ritrovato un manoscritto, un articolo sulla mia esperienza bolognese pensato per Gerozoom, una rivista a fumetti della CGIL con cui collaboravo. Non fu mai pubblicato perché non lo consegnai mai. Lo pubblico qui per la prima volta.



BOLOGNA, un focolaio d'infezione.

Bologna, la città, la gente, i compagni, tanti volti conosciuti e no. A volte, l'immagine di una "zona franca" abitata dai compagni di ogni razza, tendenza, carattere. Una samarcanda dell'estrema sinistra. Non era confusione quella che si respirava a Bologna. Era il Movimento, il ritmo folle di una vitalità troppo a lungo repressa. Era la "voglia di comunismo". Era la magia di trovarsi anche solo per tre giorni così in tanti da sembrare maggioranza.

Una strana consapevolezza viveva, credo, in molti dei presenti; la consapevolezza istintiva di vivere un momento importante, determinante, per il Movimento. Si era ad un bivio: da una parte la criminalizzazione, dall'altra la piena presa di possesso di un'area di opposizione. Ma tutto ciò viveva già su binari strettamente politici, con una volontà maggioritaria di non lasciarsi trascinare da una organizzazione armata allo scontro duro, almeno non in questa fase storica della lotta.

Il lato più importante di quei tre giorni bolognesi è proprio quello che gli occhi della borghesia ci tengono a non vedere nei loro giornali: la grande vitalità interiore dei tanto temuti "untorelli". Questi untorelli in effetti portano la peste, se peste è la voglia di godere ora dell'Eden e di sconfiggere i predicatori di chiese vecchie e nuove che promettono paradisi sempre posti oltre le capacità di vita dei loro contemporanei, di rompere con l'ideologia, giustificazione e copertura di una sconfitta "a medio termine" della voglia di vivere.

Ogni valutazione storico-politica di questa peste non ne coglie lo spirito animatore . Guardare la conformazione del dito che indica la luna è un, ormai accettato, segno di imbecillità. La diffusione e l'esistenza forzatamente accolta dai "grandi partiti democratici" di questo morbo e la sua capacità infettiva si valuteranno nei prossimi mesi. Fatto sta che se veramente si vuole capire questa peste, l'unica via è dialogare con essa. Confrontarsi e domandarsi quanta "verità rivoluzionaria" c'è nell'ostracizzare ciò che stride col proprio schema di visione della realtà.

Ricordando che i veri fascisti sono quelli che tacciano, etichettano, e, non dimentichiamolo, reprimono di fatto chi esprime il proprio dissenso. Il dissenso non ha in
Félix Guattari la sua "vedette" e non su di lui si misurano i contenuti del Movimento, bensì sui veri protagonisti: tutti coloro che vivono la peste e la esprimono.













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