Un altro mondo è impossibile.
© Paolo Verzone - cortesia dell'autore. |
Gabriele Magazzù presenta gli ospiti e dà inizio al dialogo dando la parola a Lombroso. Anche se il suo discorso si sposta subito su un piano più generale, con particolare inclinazione per l’attuale suo interesse per i Tropici, riesce a raggelare la platea facendo ben intendere che una rapida estinzione della specie umana è ormai molto più di un’ipotesi accademica. In questo senso, pone l’accento su alcuni errori di comunicazione, come la scelta dei termini per descrivere l’Apocalisse in cui siamo immersi, che hanno purtroppo ritardato per decenni preziosi la consapevolezza nell’opinione pubblica di quanto sta effettivamente accadendo al pianeta Terra, per ormai evidente responsabilità antropica. La “buona” notizia è che siamo messi così male che piantare alberi, contenere le emissioni di CO2 e riciclare rifiuti non può più ormai invertire il nostro tragico destino, ma forse solo limitare un pochino la rapidità dell’epilogo.
L’aria di prostrazione palpabile nella sala ben riempita non di scienziati del settore, ma di molti validissimi fotografi e operatori della fotografia torinesi, viene per fortuna dispersa dalla notoria capacità affabulatoria di Paolo Verzone che inizia ad introdurci nella seconda parte della serata dedicata al suo fantastico viaggio iconografico nel Polo Nord. Verzone presenta e racconta alcune fotografie tratte da un suo progetto in corso dal 2014 sul lavoro delle basi scientifiche alle isole Svalbard.
La raggiunta piena maturità professionale ed artistica di Verzone emerge con una forza spettacolare. Ne seguo quasi dalle origini la crescita e rimango sempre stupito di come riesca a trovare ogni volta la forza, prima di tutto morale e fisica, di superarsi costantemente. Un esempio virtuoso di come il fotografo debba innanzitutto essere una persona d’azione che va incontro alle esperienze con spirito conoscitivo e d’avventura. Fotografare alle Svalbard non è proprio una passeggiata di salute. Eppure Verzone sfodera la sua incredibile umanità e umiltà sforzandosi di comprendere sul campo con i diretti interessati dove diavolo sia finito e poi si concentra con maestria sul suo di mestiere: trasformare tutto questo in immagini che non solo lo contengano, ma lo rendano anche palpabile, emblematico, esperibile, persino seducente. La sintesi visiva che ormai possiede gli consente di scegliere liberamente il campo d’azione imponendo un’iconografia che dal suo seminale progetto sui cadetti delle accademie militari ha conosciuto una crescita costante di raffinatezza espressiva. Domina, e predispone dove serve, la luce, immobilizza le persone nei monumenti tipologici di loro stesse (Sant'August Sander vive e lotta ancora insieme a noi) e introduce elementi di bizzarra surrealtà semplicemente lasciando lavorare la mente e gli occhi di quel Paolo bambino che ancora si agita nella sua anima. Difficile chiedere e volere di più. Tutto questo camminando in bilico come un consumato trapezista tra le esigenze della vita, perché è pur sempre un padre di famiglia, i committenti editoriali, le possibilità autoriali, spostando sempre il passo verso il prossimo giorno di lavoro remunerato, ma senza compromettere la qualità di questo lavoro che risiede nella forza autonoma della sua iconografia costruita con pazienza nei decenni di pratica e riflessione.
Certamente il suo impegno non fornisce risposte, non indica soluzioni, non sostiene tesi di alcun genere. La fotografia, praticata e pensata seriamente, non ha questi poteri che a lungo le sono stati ascritti. Esserne consapevoli, come lo è Paolo Verzone, consente di mettere in atto una possibilità che la fotografia ha sempre avuto: quella di trasferire nel tempo e nello spazio i fenomeni visibili con un congegno ottico a base chimica o digitale per renderli osservabili durevolmente. Sembra nulla, o poco, ma è invece tantissimo. Occhio non vede cuore non duole, si dice. Appunto. Far vedere, dare corpo alle persone e forma alle cose e ai luoghi è l’inizio del “dolore della conoscenza”. Agita i neuroni e sposta il modo di pensare, pensarsi e quindi agire. Questo l’autentico potere dell’immagine, e in special modo dell’immagine fotografica, contingente e aderente come nessun'altra all’esperienza diretta.
Alla fine della serata c’è stata una bicchierata in ricordo di Marco Benna, senza il quale nulla sarebbe successo come lo si è vissuto in Phom e non solo. L’auspicio è che la sua viva presenza in chi lo ha affiancato sia di stimolo perché la corsa prosegua come unica risposta possibile alla morte, sempre inevitabile. Alla fine una bella camminata di ritorno verso casa nella notte fredda di una Torino avvolta dalle sue profetiche polveri sottili mette a riposo i neuroni sovreccitati.
Domani è comunque ancora un altro giorno.