Takara, il cinema, quello vero.


Non andate a vedere Takara - la notte che ho nuotato, potreste pentirvi di tutte le volte che avete subito robaccia mal girata e mal scritta perché vi dicevano che era buona. Questo delizioso film diretto e sceneggiato a due mani dal francese Damien Manivel e dal nipponico Kohei Igarashi è prima di tutto un'esperienza sempre più rara. Silenzio, tempo dell'azione corrispondente a quello reale, quasi muto, persino quasi senza commento musicale. Qualcosa tra la migliore Nouvelle Vague e il mitico Yasujiro Ozu. Certo, se siete ormai intossicati da cattiva adrenalina cinematografica potreste non restare fino alla fine. Meglio per chi invece ama ancora stare in una sala, meglio ancora se all'antica e con poca gente attorno, a vivere con un bambino come se fossimo nei suoi primi pensieri e nelle sue innocenti e così coraggiose gesta.

Solo, si muove in un Giappone disabitato e dove nessuno gli bada. Fotografa persino, con una rossa piccola tenera Canon compatta.  E proprio muovendosi alla deriva e fotografando arriva a destinazione. Non nel tempo giusto, ma abbastanza per lasciare il suo segno di presenza al papà che il lavoro gli rende impossibile incontrare nel quotidiano perché solo quando lui dorme, riesce per poche ore a tornare a casa e dargli almeno una carezza prima di ripartire.

Certo una fiaba delicata, e però densa di verità per chi non ha dimenticato il bambino che fu. Surreale anche, perché in Italia un bambino solo, e per giunta ritrovato dentro un'auto a dormire, sarebbe finito con i Carabinieri, la denuncia per abbandono di minore, le sceneggiate solite di un paese dove si dice di amare i bambini senza però mai capirne e rispettarne la germinale personalità.

Non andate a vederlo, mi raccomando. Per ora i magrissimi incassi del film lo confermano: non è davvero per tutti, in Italia specialmente.



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