La postfotografia e il falso problema del diluvio fotografico.
A grande richiesta, come si usa dire, torno a scrivere quello che mi passa per la testa in questo blog che dallo scorso anno avevo ridotto a semplice sito personale. Lo faccio innanzitutto per me, autoreferenziale sempre e per sempre, ma ovviamente anche per coloro che gradissero leggermi.
Passando al dunque, ieri sera da Camera a Torino, Joan Fontcuberta ci ha parlato della sua visione del fotografico. Considerato uno dei massimi esponenti della fotografia contemporanea, da decenni punta la sua attenzione sul rapporto tra gli umani e la conoscenza. Arcinote tra gli addetti ai lavori le sue serie e le installazioni che disturbano il rapporto tra vero e falso, anticipando persino, soprattutto nelle prime operazioni, la discussione attuale sulle fake news.
Nella prima parte del suo discorso stavolta ha voluto ribadire alcuni concetti che ha da poco espresso nel libro La furia delle immagini. Una sua tesi fondamentale è che siamo nell'epoca della postfotografia. La postfotografia consiste nel superamento del valore testimoniale, e persino referenziale, che da sempre viene attribuito al fotografico per approdare ad un visivo che simula l'aspetto di una fotografia, pur essendo in realtà un'immagine ottenuta con sofisticati sistemi digitali, quindi totalmente inventata. In sostanza, un ritorno al futuro dell'immagine tradizionale. Una sua vittoria definitiva sui 180 anni della devianza fotografica. Discorso apocalittico, almeno per il momento. La stragrande maggioranza delle fotografie in circolazione sono ottenute limitandosi a mettere in atto il congegno prescelto e accettandone i risultati, magari con qualche pacioccamento successivo dettato dal cattivo gusto imperante. Come al solito, tutto si regge sull'apparato di presentazione del visivo, non sul visivo stesso. Oggi posso più facilmente che mai far passare per fotografia un'immagine che non lo è affatto. Per farlo però devo mentire sulla natura tecnica di quell'immagine. Fontcuberta, per esempio, lo può fare perché ormai è un'auctoritas, difatti quando dice che qualcosa che mostra è vera si ride, perché si stenta a credergli. Insomma nulla di nuovo sotto il sole.
Poi, ancora più apocalittico, c'è il discorso un po' trito sul diluvio universale di fotografie nel quale saremmo immersi. Il riferimento d'obbligo è l'ormai famosa installazione di Eric Kessels 24 Hours in Photos, presentata per la prima volta al pubblico nelle sale del FOAM di Amsterdam nel 2011. Circa un milione di stampine 10x15 prese, illegalmente ci tengo a sottolineare, da una giornata di flusso fotografico del sito Flickr. Nei mesi successivi alla prima diffusione della fotografia, parliamo del 1839/1840, già c'era chi scriveva sui giornali dell'eccesso di fotografie in circolazione e i vignettisti prendevano in giro la nuova mania dei troppi che andavano fotografando la qualunque cosa ossessivamente. A me pare che la fotografia abbia sempre suscitato l'ostilità di quelli della ZTL della cultura, visiva in specie. Troppo semplice, troppo popolare, oggi si direbbe populista. In realtà mi pare una sorta di riflesso condizionato conservatore di una èlite acculturata che vede franare la scala gerarchica dei valori su cui erige da sempre il suo prestigio. Chi, se non i curatori delle istituzioni, gli artisti connessi e tutto il giro delle relazioni di questo piccolo mondo antico, può davvero preoccuparsi se nel mondo girano miliardi di miliardi di fotografie? Mai come oggi la fotografia è il modo di relazionarsi con le immagini che abbatte ogni barriera tecnica ed estetica. Una sorta di dadaismo di massa nel quale ogni fotografia non ambisce assolutamente ad essere vista da miliardi di umani (Fontcuberta si è divertito a contare quanto tempo avrebbe dovuto metterci per vedere almeno per un secondo un milione di fotografie), ma solo a quei pochi a cui sono destinate. Sarebbe come dire che viviamo in un mondo apocalittico perché dai milioni che eravamo siamo diventati miliardi di umani. Come si fa a conoscerli tutti? Ma chi ha detto che si debba farlo? A me, se le poche persone che stimo, gli amici, i parenti, vedono, e magari persino apprezzano, le fotografie che pubblico pare abbastanza per motivarmi a prenderne altre. E come me, ce ne sono davvero miliardi di umani che fotografano con piacere e non per far vedere le proprie fotografie a tutto il mondo, ma solo a coloro a cui si rivolgono.