Dalla storia allo storytelling.
Questo è un pensiero più generale, ma riguarda anche il piccolo mondo del fotografico. Anzi, la riflessione nasce proprio da lì.
Di recente, in vario modo, ho preso atto dell'esistenza di molte narrazioni sulla storia della fotografia, o delle fotografie se volete, e fin qui nulla di male. Ognuno è ben libero di raccontare cosa vuole di qualsiasi cosa. Il problema nasce, secondo me, quando la narrazione, per avvalorarsi come credibile, usa delle tecniche precise. Una di quelle che trovo particolarmente insopportabile è l'omissione. Escludere dal racconto gli episodi scomodi, quelli che metterebbero in crisi le tesi sostenute dal narrante, è un atto di disonestà intellettuale, se fatto in modo consapevole, o di ignoranza specifica sul tema di cui si narra. Ritengo difatti che qualsiasi sia la propria tesi, essa vada sostenuta nella conoscenza comune degli aspetti basilari, storici. Almeno quelli proprio incontestabili, comunque la si pensi.
Il problema è proprio questo, elementare in apparenza, ma in realtà sempre più diffuso in modo virale. La storia, come disciplina di studio e quindi di conoscenza fondamentale su cui si basa la memoria collettiva di una comunità, è sempre più tralasciata a favore delle storie, che ciascuno si inventa come meglio crede. Si scende quindi da un piano scientifico, sul quale è possibile un confronto tra studiosi e cultori della materia, a quello maggioritario basato sulla forza di diffusione di una credenza su di un'altra. Piano nel quale tutto si livella in una paludosa parità di opinione. Questa, che per me è una degenerazione civile ed etica, è la strada maestra per il ritorno ad una nuova barbarie culturale di massa.
Il lato più oscuro del tutto, mi appare quando a contribuire nell'affossamento sono proprio le stesse figure che dovrebbero invece impedirlo. Studiosi, curatori, critici, cultori, protagonisti delle vicende. Sempre più spesso mostre, eventi, testi, interventi sono fatti in piena libertà fiduciosi nel fatto che nessuna voce critica si leverà per contraddire. Anzi, la fiducia nell'indifferenza è tale che quando quella voce raramente si ode, viene accolta con malanimo, come frutto di dispetto e magari pure invidia, senza comprendere che invece è la voce della speranza nella ragionevolezza dell'intelletto.
Non c'è comunque da preoccuparsi, quella voce a forza di alzarsi nel deserto delle coscienze perirà per afonia lasciando liberi gli storyteller di cantarsela e suonarsela a piacimento.
Di recente, in vario modo, ho preso atto dell'esistenza di molte narrazioni sulla storia della fotografia, o delle fotografie se volete, e fin qui nulla di male. Ognuno è ben libero di raccontare cosa vuole di qualsiasi cosa. Il problema nasce, secondo me, quando la narrazione, per avvalorarsi come credibile, usa delle tecniche precise. Una di quelle che trovo particolarmente insopportabile è l'omissione. Escludere dal racconto gli episodi scomodi, quelli che metterebbero in crisi le tesi sostenute dal narrante, è un atto di disonestà intellettuale, se fatto in modo consapevole, o di ignoranza specifica sul tema di cui si narra. Ritengo difatti che qualsiasi sia la propria tesi, essa vada sostenuta nella conoscenza comune degli aspetti basilari, storici. Almeno quelli proprio incontestabili, comunque la si pensi.
Il problema è proprio questo, elementare in apparenza, ma in realtà sempre più diffuso in modo virale. La storia, come disciplina di studio e quindi di conoscenza fondamentale su cui si basa la memoria collettiva di una comunità, è sempre più tralasciata a favore delle storie, che ciascuno si inventa come meglio crede. Si scende quindi da un piano scientifico, sul quale è possibile un confronto tra studiosi e cultori della materia, a quello maggioritario basato sulla forza di diffusione di una credenza su di un'altra. Piano nel quale tutto si livella in una paludosa parità di opinione. Questa, che per me è una degenerazione civile ed etica, è la strada maestra per il ritorno ad una nuova barbarie culturale di massa.
Il lato più oscuro del tutto, mi appare quando a contribuire nell'affossamento sono proprio le stesse figure che dovrebbero invece impedirlo. Studiosi, curatori, critici, cultori, protagonisti delle vicende. Sempre più spesso mostre, eventi, testi, interventi sono fatti in piena libertà fiduciosi nel fatto che nessuna voce critica si leverà per contraddire. Anzi, la fiducia nell'indifferenza è tale che quando quella voce raramente si ode, viene accolta con malanimo, come frutto di dispetto e magari pure invidia, senza comprendere che invece è la voce della speranza nella ragionevolezza dell'intelletto.
Non c'è comunque da preoccuparsi, quella voce a forza di alzarsi nel deserto delle coscienze perirà per afonia lasciando liberi gli storyteller di cantarsela e suonarsela a piacimento.