La sostanza di ciò che si vede.
Di recente sono finalmente riuscito ad andare a vedere la mostra personale di Armin Linke al PAC di Milano. Le mie aspettative erano guidate da una scarsissima conoscenza dell'autore, del quale trattenevo nella mente ben poche cose: mi aveva colpito, un decennio fa, la freschezza del suo lavoro all'interno della collettiva 6 x Torino; avevo navigato una volta il suo sito congegnato con un'innovativa formula di massima libertà di selezione e accostamento; ogni tanto incontravo sue fotografie sulla rete e sulle riviste che mi sembravano improntate ad una certa rigorosa qualità internazionale di derivazione teutonica, ma non troppo, e in ogni caso sempre interessanti.
Carico, o meglio scarico, del mio povero bagaglio varco la soglia del PAC e mi trovo di fronte ad un apparato di una complessità impressionante. Invece della personale di un fotografo, mi trovo proiettato in un'installazione site specific che vede coinvolti ben due curatori, Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler, otto intellettuali di varia estrazione culturale e scientifica, almeno due designer per l'allestimento (supporti e suoni) più molti altri collaboratori e sponsor. Tra questi ultimi spiccano la Graham Foundation di Chicago e il Goethe Institut.
Il volume di fuoco dell'autorevolezza esibita è tale da ridurre al silenzio totale l'incauto sprovveduto che avesse avuto anche solo in mente di poter esporre un'opinione che non fosse meno che celebrativa. Quindi, con una certa temerarietà sconsiderata, eccomi uscire dalla comoda trincea dell'uomo qualunque ed avanzare carponi e circospetto verso la linea del fronte avverso armato solo di tenaglie tranciafili e fede in qualche dio protettore degli sciocchi.
L'installazione suddivide gli spazi del PAC in cinque sale tematiche, più il corridoio, il parterre e la galleria superiore, che ospita a parete tre grandi fotografie e un video. In ciascuno degli spazi si svolge quello che viene definito "dialogo": ciascuno degli intellettuali ha selezionato fotografie di Linke dalle ventimila messe a disposizione nel suo archivio e ci imbastisce sopra un suo ragionamento. Un brusio di voci avvolge tutto, degli oggetti a forma rudimentale di grande cavalletto ligneo razionalizzato (un design un poco "brutalista", che nell'insieme mi provoca l'effetto di un certo assiepamento fieristico) portano fotografie di Linke di varie dimensioni e soggetto, altre sono a parete. Ci sono poi didascalie descrittive e si viene dotati di libretto bilingue di lettura all'ingresso. Come ogni italiano che si rispetti, coltivo una certa idiosincrasia per i "libretti d'istruzione" e cado nell'errore tipico di volermela cavare senza leggere quasi nulla.
Qui finisce la mia incauta avanzata nell'installazione. Senza leggere, né ascoltare, attentamente, mi rimangono le fotografie che sono tra loro simili per educazione visiva e coerenza formale, ma come lo sarebbero le fotografie di qualsiasi eccellente professionista della fotografia industriale e tecnica. Invece di quelle di Linke, potrebbero essere quindi quelle di un altro valente collega che l'insieme non ne risentirebbe affatto nel suo impianto concettuale.
Certamente l'insoddisfazione che ho provato è colpa mia. Sono io che sono ostinatamente fissato con la faccenda dell'iconografia e dell'autonomia delle immagini dalle parole. Già sopporto a stento di conoscere luogo e data, figurarsi se mi si propone addirittura un flusso verbale intellettualmente sofisticato. Vado in tilt.
Mi resta la riconfermata bellezza del PAC: quella sua lunga vetrata sul giardino e quella lieve armonia razionalista, che amo da sempre, continuano a valere ogni visita, come quelle incantevoli che mi capitò di fare all'antologica su Ugo Mulas o quella di Jeff Wall. Mi restano anche alcune delle fotografie di Linke, in specie alcune ampie vedute, davvero coinvolgenti.
Chissà che coltivandomi ancora, non riesca a svilupparmi meglio e infine ad accedere con la dovuta disinvoltura alle installazioni come queste, che per il momento riesco ad immaginare più pertinenti con un Museo della Scienza e della Tecnica che con l'arte contemporanea. Abbiate pazienza, mi ci sto applicando.
Carico, o meglio scarico, del mio povero bagaglio varco la soglia del PAC e mi trovo di fronte ad un apparato di una complessità impressionante. Invece della personale di un fotografo, mi trovo proiettato in un'installazione site specific che vede coinvolti ben due curatori, Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler, otto intellettuali di varia estrazione culturale e scientifica, almeno due designer per l'allestimento (supporti e suoni) più molti altri collaboratori e sponsor. Tra questi ultimi spiccano la Graham Foundation di Chicago e il Goethe Institut.
Il volume di fuoco dell'autorevolezza esibita è tale da ridurre al silenzio totale l'incauto sprovveduto che avesse avuto anche solo in mente di poter esporre un'opinione che non fosse meno che celebrativa. Quindi, con una certa temerarietà sconsiderata, eccomi uscire dalla comoda trincea dell'uomo qualunque ed avanzare carponi e circospetto verso la linea del fronte avverso armato solo di tenaglie tranciafili e fede in qualche dio protettore degli sciocchi.
L'installazione suddivide gli spazi del PAC in cinque sale tematiche, più il corridoio, il parterre e la galleria superiore, che ospita a parete tre grandi fotografie e un video. In ciascuno degli spazi si svolge quello che viene definito "dialogo": ciascuno degli intellettuali ha selezionato fotografie di Linke dalle ventimila messe a disposizione nel suo archivio e ci imbastisce sopra un suo ragionamento. Un brusio di voci avvolge tutto, degli oggetti a forma rudimentale di grande cavalletto ligneo razionalizzato (un design un poco "brutalista", che nell'insieme mi provoca l'effetto di un certo assiepamento fieristico) portano fotografie di Linke di varie dimensioni e soggetto, altre sono a parete. Ci sono poi didascalie descrittive e si viene dotati di libretto bilingue di lettura all'ingresso. Come ogni italiano che si rispetti, coltivo una certa idiosincrasia per i "libretti d'istruzione" e cado nell'errore tipico di volermela cavare senza leggere quasi nulla.
Qui finisce la mia incauta avanzata nell'installazione. Senza leggere, né ascoltare, attentamente, mi rimangono le fotografie che sono tra loro simili per educazione visiva e coerenza formale, ma come lo sarebbero le fotografie di qualsiasi eccellente professionista della fotografia industriale e tecnica. Invece di quelle di Linke, potrebbero essere quindi quelle di un altro valente collega che l'insieme non ne risentirebbe affatto nel suo impianto concettuale.
Certamente l'insoddisfazione che ho provato è colpa mia. Sono io che sono ostinatamente fissato con la faccenda dell'iconografia e dell'autonomia delle immagini dalle parole. Già sopporto a stento di conoscere luogo e data, figurarsi se mi si propone addirittura un flusso verbale intellettualmente sofisticato. Vado in tilt.
Mi resta la riconfermata bellezza del PAC: quella sua lunga vetrata sul giardino e quella lieve armonia razionalista, che amo da sempre, continuano a valere ogni visita, come quelle incantevoli che mi capitò di fare all'antologica su Ugo Mulas o quella di Jeff Wall. Mi restano anche alcune delle fotografie di Linke, in specie alcune ampie vedute, davvero coinvolgenti.
Chissà che coltivandomi ancora, non riesca a svilupparmi meglio e infine ad accedere con la dovuta disinvoltura alle installazioni come queste, che per il momento riesco ad immaginare più pertinenti con un Museo della Scienza e della Tecnica che con l'arte contemporanea. Abbiate pazienza, mi ci sto applicando.