Polvere di bit.

Si prendono sempre più fotografie durante l'esistenza. Un gesto ripetuto e compulsivo senza il quale sembrerebbe di non completare degnamente l'esperienza vissuta. Sempre più fotografie rimangono quindi dimenticate nelle memorie degli smartphone, negli hard disk o in quei cimiteri virtuali che sono le "nuvole di gigabyte" gentilmente messe a disposizione sulla rete.

Prima dell'arrivo del file digitale non accadeva nulla di diverso. Le fotografie erano inevitabilmente degli oggetti di carta, stampati da negativi che andavano rigorosamente persi chissà dove. Restavano però le stampine dimenticate in qualche scatola o cassetto. I più fortunati avevano in famiglia dei curatori della memoria, sovente femminili, che allineavano con delicatezza nei fotoalbum tutte le fotografie che potevano contribuire ad illustrare le gesta e il grado di parentela di ogni familiare ripreso durante gli eventi e le riunioni.

Proprio da lì viene quella che è stata fino ad ora la funzione sociale forse più importante del fotografico. Non la qualità estetica, non l'importanza dell'evento, non la rarità dei fenomeni fissati, ma la registrazione inconsapevole di ciò che era e poi non sarà più. La presenza di una futura assenza, non prevista e pensata durante la ripresa.

Così in una fotografia si può ritrovare un volto tanto amato e scomparso troppo presto. Così da quel dettaglio ingrandito si può riannodare un filo, anche se sottile e ridotto a traccia visiva, con quella persona, con quel momento della vita.

Questa preziosa funzione è oggi sotto la minaccia di essere perduta per sempre. Cosa resterà dei flussi digitali? Polvere di bit.


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