Fino alla prossima fotografia.
©2014 Fulvio Bortolozzo. |
Quale tempo? Il mio. Un tempo dato, forse persino predeterminato. Il mio perché riguarda me, ma è anche il tuo, che stai ora impiegando per leggermi.
Se questa misura del tempo umano è finita, com'è nei fatti biologici per quanto le religioni si sforzino da sempre di inventare prolungamenti di varia natura, allora ecco che diventa uno dei temi di riflessione più interessanti.
L'approccio fotografico alla questione del tempo è terribilmente semplice: lo sposta. Nel prendere una fotografia si spende del tempo esistenziale finito, il proprio. Anche solo per una frazione di secondo, che poi è sempre molto di più per quanto veloci si possa essere. Il gesto tenderà però a non restare isolato, si vorrà osservare, anche solo di sfuggita su un piccolo display, la traccia visiva che la fotocamera ha trattenuto. Altro tempo. Infine c'è la diffusione della traccia, quasi immediata oggi, ma in casi sempre meno frequenti ancora ripetuta più in là, magari molti anni dopo. Altro tempo, stavolta anche di altri.
Cosa c'è da guadagnare nell'impiegare del tempo per prendere ed osservare fotografie? Molte spiegazioni convincenti si possono leggere e sentire. Alla fine però forse una sola resta davvero sempre valida: l'oblio.
Dimenticarsi di dover per forza esistere in un tempo dato, in un flusso esistenziale che non ha inciampi, ritardi e nemmeno ritorni possibili. L'illusione di eternità presente in ogni fotografia aiuta a provocare una vertigine, un delirio all'interno del quale, invece di impazzire come si dovrebbe, si possa continuare a vivere la propria vita. Almeno per un altro po' di tempo, fino alla prossima fotografia.
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