Da Ghirri ai ghirrini.

©2014 Fulvio Bortolozzo, dalla serie "Appunti per gli occhi".
Da qualche giorno tra i blog di fotografia che seguo più assiduamente mi è apparsa una specie di ola, di quelle che si vedono sugli spalti alle partite dei Mondiali di calcio. La vedo iniziare da Michele Smargiassi il 18 giugno scorso con un post intitolato "Considerazioni di un idiota sulla foto d'arte" , prosegue il 21 giugno con "L'equivoco ghirriano" di Efrem Raimondi e la vedo arrivare dalle mie parti oggi con il post "La soglia" di Enrico Prada. Non resisto quindi all'idea di alzarmi anch'io in piedi per consentirle di andare oltre, se qualcun altro vorrà raccogliere questa espressione spontaneista di festosa partecipazione.

Conosco l'opera di Ghirri fin quasi dal suo inizio. Nel senso che, inconsapevole giovincello pastrocchiante con le fotocamere per tirarne fuori qualcosa di "mio", mi imbattei nell'edizione fresca di stampa di "Kodachrome", il primo libro fotografico "autoedito" da Luigi Ghirri nel 1978. Mi si aperse all'epoca un mondo nuovo fin dalla prima fotografia del libro. Non sto ora a farla lunga per non annoiare con dei casi privati, ma se c'è una cosa che da allora non ho più sentito il bisogno di cambiare è l'approccio concettuale al fotografico. Fare fotografie per porre domande, per mettere insieme rifllessioni sulle immagini, in particolare fotografiche ma non solo, e sulla opportunità che possono dare come esperienza di conoscenza del mondo visibile a cui apparteniamo tutti.

Oggi circola con successo una specie di Bignami di quanto Luigi Ghirri pensò e fece:  Lezioni di fotografia edito da Quodlibet. In sostanza una trascrizione di quanto disse in un ciclo di lezioni. Risente dell'approssimazione del trascritto da un parlato, ma soprattutto innesca facilmente l'equivoco nel lettore non avveduto di poterlo assumere come abbecedario sul da farsi. Un po' come successe sfortunatamente all'introduzione del libro "Images à la sauvette" scritta da Henri Cartier Bresson e divenuta nel tempo la bibbia del fotografare per stuoli di fotoamatori italici di varie generazioni.

Dipenderà forse dalla cultura cattolica in cui nasciamo, viviamo e moriamo, ma l'idea che esista sempre un santo da qualche parte con delle tavole della Legge in mano sembra ineliminabile anche nel fotografico. In attesa che venga messo sul suo dovuto altarino San Vaccari o finalmente sia eretta e dedicata una cattedrale (apocrifa e con i baffi of course...) a San Duchamp, si rischia di veder sorgere ora miriadi di chiese e cappellette a San Luigi Ghirri, piene di fedeli, che Efrem chiama "epigoni", ma io preferisco chiamare "ghirrini" per definirne meglio il culto. Ad unire i fedeli vi sono alcuni stilemi visibili, necessari per la riconoscibilità di appartenenza. Un paio in particolare: fotografie molto sovraesposte (i più fanatici sembra che usino conegrina) e la predilezione per luoghi vuoti, soglie ed ogni altro topos già fotografato da Ghirri.

Questa fede si estende al mercato dell'arte nostrano e fioriscono così le opere post-ghirriane che alimentano i dubbi dei finti idioti sulla insensatezza di tutto questo mercanteggiare.

Sì, perché oggi aderire alla chiesa di Ghirri predispone alla salvezza. Il miracolo accade. Una stampa fotografica diviene opera d'arte e il raggio di luce celestiale che ricade sul capo del fotografante ha il potere benedetto di trasformare l'acqua (del rubinetto) in purissimo vino DOC, cioè il "macchinista" si trasforma in "Artista" tout court.

Ecco così che il Luigi autoironico, che ascoltava Bob Dylan mentre pensava e viaggiava per i suoi luoghi, quello che si divertiva come un bambino a stupirsi ogni volta degli infiniti giochi tra realtà e finzione delle immagini fatte di luce, ecco che questo primo e fondamentale Ghirri scompare. Lascia il posto ad un normatore serio e ingessante. Un idolo da adorare e ripetere come un'icona greco-ortodossa sempre uguale a se stessa e sempre meno buona della precedente.

Basta, mi risiedo. L'ola continui pure adesso oltre di me.

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