Cercasi italiano disperatamente.
Sì, di nuovo al Cineteatro Baretti. Un luogo che mi si rivela ogni volta di più indispensabile, pur collocato com'è nell'offerta variegata di una grande città come Torino. Il suo non so che di familiare, lo rende quel cinema di paese, o di quartiere, già vissuto nell'infanzia; il tutto unito poi ad una programmazione che, titolo dopo titolo, presenta una qualità culturale davvero eccellente.
Questa volta tocca a Daniele Gaglianone con il suo ultimo film "La mia classe", presentato alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno. Questo non è un blog di critica cinematografica è quindi mi si perdonerà se non possiedo gli strumenti e la competenza necessari per una disamina coerente del fim. Sono tuttavia da sempre un cinefago. In questa veste sui generis, consiglio vivamente la visione di quest'opera low cost, girata in sole due settimane con attori, tranne il magnifico Valerio Mastandrea, presi dalla vita di tutti i giorni. Sempre che la troviate in circolazione. La grande distribuzione, e anche quella media, la stanno snobbando con ragioni diverse, pur se coprodotta da RAI Cinema. Per fortuna nel mondo asfittico del business cinematografico nostrano resistono, e anzi paiono stare per ritrovare una inattesa nuova primavera, le sale indipendenti che, tra mille difficoltà, riescono a veicolare anche film come questo.
L'unico motivo pertinente che avrei per scriverne qui starebbe nel paio di accenni dati al fotografico come luogo di connessione tra un presente difficilissimo in terra straniera e gli affetti lasciati a casa. Legame modestissimo, niente smartphone, fatto di stampine fotografiche qualsiasi, molto consumate dal tempo e dal portarle con sè ovunque. Ci sarebbe anche un tentativo di discorso irrisolto della graziosa e dolente allieva iraniana Shadi sulla macchina fotografica che mostra alla classe.
Lasciamo però perdere. In realtà la cosa che mi spinge a metterci il mio centesimo è l'approccio seguito da Gaglianone. All'inizio può sembrare l'ennesimo lavoro sul rapporto docente /allievi (O capitano! Mio capitano!). Qualcosa però presto non torna. Qui siamo nel dopo-Maestro Manzi, nel dopo-Neorealismo. Quell'Italia lì non c'è più, si è persa da tempo e non sa tornare. Il maestro, non a caso chiamato così e non con il più consueto appellativo di professore, non è nell'anima, è stanco, sperduto, malato persino. La scuola è fatiscente, nelle idee prima che nei muri, addirittura girarci un film diventa problematico. Come in Effetto Notte di François Truffaut o Lo stato delle cose di Wim Wenders, la troupe entra in scena, il backstage si mescola con il profilmico e si gira il girare. Lo stesso Daniele Gaglianone ad un certo punto entra nel vivo e con Mastandrea si trovano al centro di un momento di assemblearismo molto anni Settanta. C'è qualcosa di brechtiano in tutto questo. Ho dovuto calare gli assi dei riferimenti colti, ma non posso con questo vincere la mano, perché quello che trovo insuperabile in Gaglianone è l'onestà, piana e serena, del suo agire che trova in Mastandrea uno specchio coerente. Tutto si svolge come capitasse a chiunque di noi, un giorno qualsiasi della nostra vita, senza strizzatine d'occhio agli amici del settore o ai colti esegeti. Ci si rivolge invece direttamente a chi vive le contraddizioni sociali dell'immigrazione o a chi potrebbe trovarsi a doverle affrontare. Ecco il documento dove nasce: la finzione non esclude il piano di realtà, lo interseca invece fino alla carne viva. Ci vuole proprio un bel coraggio a fare un film così, oggi, qui, perché potrebbe cadere in un limbo di incomprensione, figlio di nessuno e da nessuno veramente capito.
Infine l'italiano. Io sono italiano. Non lo sono perché sono nato a Torino o perché i miei genitori sono nati in Veneto, così come nonni, bisnonni e poi non so più, perché delle mie radici contadine non conosco altro. Lo sono perché ho frequentato a Torino la scuola pubblica dell'obbligo dove trovai, oltre a compagni di classe indigeni e allogeni (leggi: piemontesi e del resto d'Italia, con prevalenza Sud...) dei maestri e professori di Italiano. Come forse nessun altro caso al mondo, essere italiano non significa appartenere ad una terra, a un sangue, a una religione o altro, significa appartenere ad una lingua letteraria, una lingua d'arte. Non solo fatta di grammatica e sintassi quindi. Fatta di idee, pensieri, passioni, stili di vita degli autori che dicono e scrivono i testi alla base dell'italiano. Imparare l'italiano è imparare a considerare la propria vita un'opera d'arte, da sviluppare e far crescere con tutta la cura del caso. Chi non capisce questo non parla italiano e non è italiano.
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Questa volta tocca a Daniele Gaglianone con il suo ultimo film "La mia classe", presentato alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno. Questo non è un blog di critica cinematografica è quindi mi si perdonerà se non possiedo gli strumenti e la competenza necessari per una disamina coerente del fim. Sono tuttavia da sempre un cinefago. In questa veste sui generis, consiglio vivamente la visione di quest'opera low cost, girata in sole due settimane con attori, tranne il magnifico Valerio Mastandrea, presi dalla vita di tutti i giorni. Sempre che la troviate in circolazione. La grande distribuzione, e anche quella media, la stanno snobbando con ragioni diverse, pur se coprodotta da RAI Cinema. Per fortuna nel mondo asfittico del business cinematografico nostrano resistono, e anzi paiono stare per ritrovare una inattesa nuova primavera, le sale indipendenti che, tra mille difficoltà, riescono a veicolare anche film come questo.
L'unico motivo pertinente che avrei per scriverne qui starebbe nel paio di accenni dati al fotografico come luogo di connessione tra un presente difficilissimo in terra straniera e gli affetti lasciati a casa. Legame modestissimo, niente smartphone, fatto di stampine fotografiche qualsiasi, molto consumate dal tempo e dal portarle con sè ovunque. Ci sarebbe anche un tentativo di discorso irrisolto della graziosa e dolente allieva iraniana Shadi sulla macchina fotografica che mostra alla classe.
Lasciamo però perdere. In realtà la cosa che mi spinge a metterci il mio centesimo è l'approccio seguito da Gaglianone. All'inizio può sembrare l'ennesimo lavoro sul rapporto docente /allievi (O capitano! Mio capitano!). Qualcosa però presto non torna. Qui siamo nel dopo-Maestro Manzi, nel dopo-Neorealismo. Quell'Italia lì non c'è più, si è persa da tempo e non sa tornare. Il maestro, non a caso chiamato così e non con il più consueto appellativo di professore, non è nell'anima, è stanco, sperduto, malato persino. La scuola è fatiscente, nelle idee prima che nei muri, addirittura girarci un film diventa problematico. Come in Effetto Notte di François Truffaut o Lo stato delle cose di Wim Wenders, la troupe entra in scena, il backstage si mescola con il profilmico e si gira il girare. Lo stesso Daniele Gaglianone ad un certo punto entra nel vivo e con Mastandrea si trovano al centro di un momento di assemblearismo molto anni Settanta. C'è qualcosa di brechtiano in tutto questo. Ho dovuto calare gli assi dei riferimenti colti, ma non posso con questo vincere la mano, perché quello che trovo insuperabile in Gaglianone è l'onestà, piana e serena, del suo agire che trova in Mastandrea uno specchio coerente. Tutto si svolge come capitasse a chiunque di noi, un giorno qualsiasi della nostra vita, senza strizzatine d'occhio agli amici del settore o ai colti esegeti. Ci si rivolge invece direttamente a chi vive le contraddizioni sociali dell'immigrazione o a chi potrebbe trovarsi a doverle affrontare. Ecco il documento dove nasce: la finzione non esclude il piano di realtà, lo interseca invece fino alla carne viva. Ci vuole proprio un bel coraggio a fare un film così, oggi, qui, perché potrebbe cadere in un limbo di incomprensione, figlio di nessuno e da nessuno veramente capito.
Infine l'italiano. Io sono italiano. Non lo sono perché sono nato a Torino o perché i miei genitori sono nati in Veneto, così come nonni, bisnonni e poi non so più, perché delle mie radici contadine non conosco altro. Lo sono perché ho frequentato a Torino la scuola pubblica dell'obbligo dove trovai, oltre a compagni di classe indigeni e allogeni (leggi: piemontesi e del resto d'Italia, con prevalenza Sud...) dei maestri e professori di Italiano. Come forse nessun altro caso al mondo, essere italiano non significa appartenere ad una terra, a un sangue, a una religione o altro, significa appartenere ad una lingua letteraria, una lingua d'arte. Non solo fatta di grammatica e sintassi quindi. Fatta di idee, pensieri, passioni, stili di vita degli autori che dicono e scrivono i testi alla base dell'italiano. Imparare l'italiano è imparare a considerare la propria vita un'opera d'arte, da sviluppare e far crescere con tutta la cura del caso. Chi non capisce questo non parla italiano e non è italiano.
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