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Venezia, 1960. ©Gianni Berengo Gardin. |
Gianni Berengo Gardin non ha davvero bisogno di presentazioni. Se c'è un uomo che può incarnare con la propria vita il mestiere del fotogiornalista è senza dubbio lui. Da sempre punta le sue Leica su tutto quanto possa essere motivo di riflessione. Innumerevoli le sue fotografie e tutte dedicate al desiderio di vedere bene ciò che accade per dare modo a se stesso e agli altri di provare a capire. Mai fazioso, sempre un passo indietro, disposto a nascondersi dietro l'umiltà dell'artigianato piuttosto che prevaricare un'immagine con la sua personalità e i suoi preconcetti artistici o ideologici, posto che ne abbia. Berengo rappresenta ancora il meglio dell'utilità sociale di un fotografo, a fronte del diluvio di fotografanti che la tecnologia digitale riproduce come tanti vanesi e autoreferenziali
robot oculari tutti uguali tra loro. Mentre l'editoria nazionale e internazionale, vedi la recente vicenda del
Chicago Sun Times, si arrende al consumismo visivo licenziando i propri fotoreporter e sostituendoli con un noto smartphone di moda consegnato ai suoi giornalisti, Berengo Gardin continua imperterrito a osservare cosa accade e a tradurlo in immagini coerenti, culturalmente utili e storicamente necessarie. Di recente è tornato alla sua Venezia, ma non per aggiungere qualche perla alla sua infinita collana d'immagini che ne scrutano e rivelano la bellezza più inattesa. Tra le quali, quella che più vorrei possedere è qui in apertura dell'articolo: l'interno del vaporetto, realizzato nel 1960. Montaggio caleidoscopico raggiunto con una sintesi istantanea davvero mirabile.
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Venezia, 2013. ©Gianni Berengo Gardin. |
Stavolta a richiamare Berengo a Venezia è uno degli sfregi maggiori che l'industria del crocerismo di massa sta portando alla Serenissima: il
transito nel bacino di San Marco e nel canale della Giudecca di quei
giganteschi condomini galleggianti che sovrastano per mole e altezza la
città lagunare trasformandola in un modellino di se stessa, quasi fosse
un giocattolo di plastica di gusto statunitense o nipponico da poter
consumare e dimenticare come qualsiasi altro prodotto di questo
junk system in cui siamo sempre più infognati. Se qualche dubbio ancora restava, se gli interessi corporativi di chi campa sul turismo, e per farlo sarebbe anche disposto a vendere la madre, davano una parvenza di legittimità a questo vero e proprio stupro culturale e ambientale, con le fotografie di Berengo l'evidenza dei fatti mette tutti con le spalle al muro. Il potere del fotografico di insegnare a vedere ciò che prima non si vedeva così chiaramente, trova in Gardin un suo estremo cultore. E con questo, Gianni Berengo Gardin insegna anche che nel mondo di giocattoli che ci propinano sempre più massicciamente, saper ritrovare la forza di guardare il proprio quotidiano e saper trarne delle tracce fotografiche coerenti con l'esperienza che se ne fa non è affatto un esercizio superato. Anzi, a fronte della falsificazione dei luoghi e delle vite operata dagli agenti mediatici del pensiero unico che trasforma l'umanità in numeri e profitti, proprio questo esercizio individuale e collettivo di riappropriazione del visibile diventa fondamentale per recuperare coscienza critica e, con essa, capacità di azione e contrasto al destino cellophanato e prezzato in cui stiamo morendo.
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