Un falso problema
Con l'avvento dell'informatica sono nate all'interno del "sacro recinto" fotografico diverse diatribe innescate dai sostenitori di una presunta purezza della Fotografia (con la "F" maiuscola) sconciata orribilmente dagli interventi resi possibili dalla digitalizzazione.
Posizioni come queste mi hanno sempre divertito perché disconoscono allegramente l'autentica "purezza" del mezzo fotografico. Fin dalle origini difatti, ogni immagine fotografica è sempre stata ritoccata, più o meno abilmente, per ricavarne i dati che si desiderava mostrare. Temo siano stati i lunghi anni di cattiva comprensione di un grande fotografo come Henry Cartier-Bresson a dare il via al mito del negativo intoccabile, scrigno fedele della verità!
A riprova di quanto affermo, ho ritrovato tra gli scarti di una libreria, svenduti al 90% del loro prezzo di copertina, un volumetto edito nel 1984 in America e dedicato alle fotografie realizzate dal tedesco Arnold Genthe nel quartiere della vecchia Chinatown di San Francisco tra il 1895 e il 1906.
Genthe usava la sua fotocamera a lastre a mano libera (e di notte con il lampo al magnesio) per tradurre in fotografie la brulicante vita dei cinesi. Un antesignano della street photography quindi. All'inizio del libro ci sono due fotografie fatte da qualche conoscente a Genthe mentre lavorava. La prima riproduce il negativo così com'è stato ripreso, la seconda è l'interpretazione che ne diede lo stesso Genthe. Dal loro confronto si puo facilmente vedere come sia il taglio, sia i toni, sia gli stessi soggetti furono molto alterati.
Certamente Genthe non riteneva quindi di catturare delle "verità intoccabili", né di officiare alcun rito misterico. Semplicemente usava uno strumento per trasferire ciò che vedeva dentro immagini che potessero conservarne traccia verosimile secondo il suo personalissimo punto di vista. Fine.
Qual è allora il senso di questa come di ogni altra applicazione della fotografia al reale visibile? Salvare il salvabile, mi verrebbe da dire. All'epoca della sua attività in quel quartiere, Genthe (oltre 120 lastre esposte in vari momenti) era visto di cattivissimo occhio dalla comunità cinese. In qualche caso rischiò persino di finire malmenato o peggio. I loro discendenti invece, nel nobile intento di esibire le loro origini americane, diedero mano nel 1984 ad una pubblicazione celebrativa nella quale le fotografie di Arnold Genthe furono usate per stabilire un diretto legame visivo con la Chinatown irrimediabilmente distrutta dal terribile terremoto che colpì San Francisco nel 1906. Allora come oggi, il fotografo è quindi ai comandi dell'unica macchina spazio-temporale conosciuta. Grazie al "volo" di Arnold, qualcosa di quella Chinatown ci ha raggiunti. Senza il suo lavoro, e quello di tantissimi suoi colleghi, non ci resterebbero che ricordi orali e scritti o qualche disegno di quanto accade nella storia umana. Questa mi pare l'autentica "purezza", se una deve proprio esserci, della fotografia. Ieri come oggi e, spero, anche domani.
Posizioni come queste mi hanno sempre divertito perché disconoscono allegramente l'autentica "purezza" del mezzo fotografico. Fin dalle origini difatti, ogni immagine fotografica è sempre stata ritoccata, più o meno abilmente, per ricavarne i dati che si desiderava mostrare. Temo siano stati i lunghi anni di cattiva comprensione di un grande fotografo come Henry Cartier-Bresson a dare il via al mito del negativo intoccabile, scrigno fedele della verità!
A riprova di quanto affermo, ho ritrovato tra gli scarti di una libreria, svenduti al 90% del loro prezzo di copertina, un volumetto edito nel 1984 in America e dedicato alle fotografie realizzate dal tedesco Arnold Genthe nel quartiere della vecchia Chinatown di San Francisco tra il 1895 e il 1906.
Genthe usava la sua fotocamera a lastre a mano libera (e di notte con il lampo al magnesio) per tradurre in fotografie la brulicante vita dei cinesi. Un antesignano della street photography quindi. All'inizio del libro ci sono due fotografie fatte da qualche conoscente a Genthe mentre lavorava. La prima riproduce il negativo così com'è stato ripreso, la seconda è l'interpretazione che ne diede lo stesso Genthe. Dal loro confronto si puo facilmente vedere come sia il taglio, sia i toni, sia gli stessi soggetti furono molto alterati.
Certamente Genthe non riteneva quindi di catturare delle "verità intoccabili", né di officiare alcun rito misterico. Semplicemente usava uno strumento per trasferire ciò che vedeva dentro immagini che potessero conservarne traccia verosimile secondo il suo personalissimo punto di vista. Fine.
Qual è allora il senso di questa come di ogni altra applicazione della fotografia al reale visibile? Salvare il salvabile, mi verrebbe da dire. All'epoca della sua attività in quel quartiere, Genthe (oltre 120 lastre esposte in vari momenti) era visto di cattivissimo occhio dalla comunità cinese. In qualche caso rischiò persino di finire malmenato o peggio. I loro discendenti invece, nel nobile intento di esibire le loro origini americane, diedero mano nel 1984 ad una pubblicazione celebrativa nella quale le fotografie di Arnold Genthe furono usate per stabilire un diretto legame visivo con la Chinatown irrimediabilmente distrutta dal terribile terremoto che colpì San Francisco nel 1906. Allora come oggi, il fotografo è quindi ai comandi dell'unica macchina spazio-temporale conosciuta. Grazie al "volo" di Arnold, qualcosa di quella Chinatown ci ha raggiunti. Senza il suo lavoro, e quello di tantissimi suoi colleghi, non ci resterebbero che ricordi orali e scritti o qualche disegno di quanto accade nella storia umana. Questa mi pare l'autentica "purezza", se una deve proprio esserci, della fotografia. Ieri come oggi e, spero, anche domani.