Il compagno Renato.



Sembra un poco paradossale che una mostra dedicata al compagno Renato Guttuso si apra alla GAM di Torino sotto un’amministrazione pentastellata. Avrebbe dovuto inaugurarla il compagno Piero Fassino, erede più che legittimo di tutta la storia del Partito Comunista d’Italia.

Nei comunicati si legge così:

Nella ricorrenza dei cento anni della Rivoluzione d’Ottobre, la GAM di Torino presenta una nuova mostra su Renato Guttuso. “Renato Guttuso – L’arte rivoluzionaria nel cinquantenario del ’68” racconterà attraverso le opere del grande artista siciliano il rapporto tra politica e cultura. La mostra sarà visitabile alla GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino dal 23 febbraio al 24 giugno 2018.

Insomma una carrellata in sessanta opere dell’artista di Bagheria che vuole rendere omaggio a cent’anni di rivoluzionarismo comunista. Ed in effetti, per chi avesse anche solo lontanamente vissuto le vicende del
Novecento Rosso, questa mostra può funzionare da detonatore di sentimenti che stavano sopiti ormai sotto quarant’anni di passi all’indietro, ma mai davvero dimenticati.

Si celebra un’Italia che non c’è più da millenni mediatici, fatta di contadini umiliati e affamati, classi operaie che cercavano il loro paradiso in terra, intellettuali organici e gramscianamente biodegradati nelle sorti magnifiche e progressive del partito dei lavoratori lanciato come una locomotiva contro le ingiustizie padronali.

Una fiaba per bambini.




Sotto tutto questo apparato ideologico, c’è un pittore di qualità sicura. Per sua e nostra fortuna. Dalle spoglie della rivoluzione tradita, o meglio incompresa, quella italiana, possiamo tenerci qualcosa ancora. C’è un dipinto del 1953, “La zolfara”, che poco importa cosa descriva, ma con quale potenza lo descrive. Ancora viva. 
C’è un pittore di talento che amò Picasso e seppe raccoglierne qualcosa, a volte con spavalda sicumera, ma anche grandezza. Poi c’è anche il muro del pianto comunista: i funerali di Togliatti. Avvenuti nel 1964, non vide gli albori della fine del suo partito per soli quattro anni. Nel 1972 Guttuso dipinse la sua apoteosi nazionalpopolare. C’è il giovane Berlinguer che stava per avviarsi all’ultimo splendore prima della fine: la vittoria alle elezioni del 1976, a cui potei partecipare anch’io neodiciottenne con il mio sterile voto per Democrazia Proletaria. 34,37% di voti al PCI contro i 38,71% alla DC. Sembrava solo la fine dell’inizio, era l’inizio della fine. Subito, nel 1978, la pietra tombale la misero le Brigate Rosse con l’assassinio di Aldo Moro.
Si può persino piangere davanti ai funerali di Togliatti immaginati dal compagno Renato. In fondo, l’arte può servire anche a questo. Una catarsi che scioglie tanti grovigli accumulati nel tempo.

Diversi volti di Lenin stanno tra la folla, Gramsci è accanto al volto del
Migliore. Un solo Stalin, per dovere.

Si può avere nostalgia di un partito che si è combattuto da sinistra fin dalla prima gioventù? Si può.

Il compagno Renato non ha mai saputo come sarebbe andata a finire ed è meglio così. Era una bella figura d’uomo siciliano. Nobile, con la schiena diritta, pensoso e sorridente. Sì, si può avere persino nostalgia di Renato Guttuso, pur avendo fin dalla prima gioventù svalutato il suo figurativismo organico e applaudito le sorti magnifiche e ribelli dell’Arte Povera, finite nel nulla del più insensato e mercantilistico post concettualismo, post ideologico, post su Facebook. In attesa che arrivino gli hacker russi a liberarci dai nostri mali. Amen.

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