Uscire dalla gabbia.


Di recente ho avuto modo di incontrare la resistenza di alcuni all'idea di potersi trovare di fronte a delle immagini fotografiche senza alcun supporto da parte delle parole, siano esse dette o scritte. Un vero è proprio horror vacui.

L'immagine vissuta come abisso oscuro sul quale affacciarsi sia un pericolo mortale e vada perciò fatto solo con le dovute cautele verbali del caso per non precipitarvi dentro.

Il timore parrebbe essere quello di non poter comprendere quello che si vede. Una sfiducia paradossale nella capacità del sistema occhio/cervello di risolvere l'enigma, come fosse tutta una trappola preparata ad arte per impedirlo.

Penso purtroppo che le cose non stiano proprio così. Sarebbe in fondo una paura ragionevole perché rivolta alla necessità, tutta umana, di dare un qualche senso alle cose e alle esperienze. Invece leggo nel rifiuto del rapporto diretto con delle immagini senza la cintura di protezione delle parole il bisogno prioritario di conformarsi ad un senso comune condiviso.

Non importa cioè conoscere veramente le cose, farne esperienza attraverso l'analisi personale e magari sbagliando ripetutamente prima di riuscirvi, ma avere su di esse l'opinione socialmente stabilita dal proprio gruppo di riferimento. Siamo di fronte al conflitto tra individualità e appartenenza, nel quale si pensa, secondo me erroneamente, che solo nella seconda possa esservi conoscenza, identità e quindi cultura.

Ci vorrebbe più coraggio. Le immagini, nel loro silenzio, lo richiedono. Uscire dalla gabbia di ciò che si dovrebbe pensare e arrischiarsi a pensare dell'altro, anche se potrebbe sembrare insensato. Diversamente, non rimane che assopire la mente nel rassicurante tran tran di ciò che ci dicono si debba pensare, chiedendo il libretto di istruzioni per poterlo fare: un titolo, una didascalia, una descrizione, magari anche audio con le cuffie ché così non si deve nemmeno fare la fatica di leggere niente.

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