Di ogni immagine fotografica.

Quella in corso al MAO di Torino è una mostra altamente consigliabile. Espongono tappeti cinesi di raffinata manifattura in prevalenza sette-ottocentesca. Provengono dalla Città Proibita e da altre sedi esclusive del potere imperiale plurisecolare. A parte l'allestimento, e l'illuminotecnica, curati in ogni dettaglio, accompagnano il visitatore anche una musica ed un gioco di luci quanto mai gradevoli.

La cosa però più interessante è che pur non sapendo nulla di tappeti, e non avendo nemmeno un interesse a volerne sapere davvero qualcosa, si rimane comunque catturati dalla maestria messa in atto nell'ideazione e realizzazione delle decorazioni. Confluiscono in esse filosofie ancestrali, concezioni religiose, conoscenze tecniche e, come sintesi di tutto questo, una capacità di mettere insieme forme, colori e segni davvero straordinaria.

Non stupisce che diversi artisti occidentali abbiano rinnovato il loro pensiero studiando l'Oriente. C'è qualcosa per noi di difficilmente afferrabile perché trascende la volontà e il destino dell'individuo, che diviene semplice nodo di passaggio di un flusso che inizia prima della sua nascita e prosegue dopo la sua morte. Piccole variazioni possono essere al massimo portate, nessuna rivoluzione radicale è davvero possibile.

In fondo, anche nel fotografico, con tutto l'affannarsi di ciascuno a prelevare compulsivamente innumerevoli fotografie, c'è come una corrente, un flusso che scorre nonostante tutto e tutti. Autori, concezioni, estetiche, finalità, ogni cosa scomparirà nel tempo e l'unica cosa che rimarrà sarà l'azione, oggi silente, dell'aprirsi e chiudersi degli otturatori, l'unica forma davvero essenziale di ogni immagine fotografica.

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