Mondi paralleli.


Torino, 2013.  - ©Fulvio Bortolozzo
In fondo è un'esperienza tutto sommato molto semplice. Della luce che viene trattenuta come traccia iconica visibile in modo durevole su di una superficie piana per tramite di un apparato tecnico. Un'immagine "automatica" insomma. Ci stiamo avviando ai due secoli di storia di questo procedimento e in un lasso di tempo così breve, sette od otto generazioni, esso ha completamente rivoluzionato il rapporto degli umani con le immagini. Da quel fatidico 1839, proprio a causa dell'inarrestabile pervasività sociale del fotografico, stiamo vivendo una esponenziale e paradossale "inversione dell'esperienza": ogni umano nutre ormai la propria mente più delle loro tracce fotografiche che delle percezioni visive dirette dei fenomeni. Una distorsione delle sorgenti del pensiero che trasforma il mondo in un mero set funzionale per immagini ottiche, le uniche ad essere oggetto d'interesse concreto. Ciò che non viene fissato in fotografie, o video, non è nemmeno "esperibile" e non rileva concettualmente. Un'allucinazione collettiva insomma. Eppure lo stesso strumento che provoca tutto ciò, contiene gli elementi essenziali per uscire fuori da questa spirale nevrotica. Per esempio, realizzare fotografie che siano una restituzione verosimile di un visivo esperibile in buona parte anche direttamente di persona nel luogo stesso dove il fenomeno si manifesta può essere una sorta di terapia per l'uscita accompagnata dall'incubo. Fotografare quindi per tornare a far porre l'attenzione di chi osserva le fotografie sulla sorgente dell'immagine e non per alimentare all'infinito il sogno di impossibili mondi paralleli.
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