L'anomalia del fotografico.

Collioure (France), 2007.
Vado al cinema fin dalla più tenera infanzia. Dal 1975 rinnovo, quasi senza soluzione di continuità, la tessera AIACE ed ho visto centinaia e centinaia di film, in prevalenza d'autore. Amo il cinema. Eppure non ho mai nemmeno pensato di girare un metro di pellicola. Di fare un mio film.

Entro ed esco dalle gallerie d'arte, dai musei, dalle collezioni; acquisto libri d'arte e monografie dei pittori che prediligo. Amo la pittura. Mai pensato però di fare un quadro nemmeno quando ero al Liceo artistico e men che meno all'Accademia Albertina.

Leggo romanzi da sempre, fin da quelli "per ragazzi" che divoravo ancora bambino, mai pensato di scriverne uno mio.

Sono solo tre esempi personali di come esista comunemente un interesse per un'attività espressiva slegato dal desiderio di praticarla in prima persona. Esistono mercati, anche molto grandi, fatti dalle persone che amano "nutrirsi" di qualche forma d'arte senza per questo mai immaginare di diventarne produttori.

Nel fotografico non è così. Non incontro che estremamente di rado qualcuno che mi dica di amare la fotografia, ma di  non praticarla mai, nemmeno per impulso compulsivo con uno smartphone. Esistono i cinefili, ci sono gli amanti dell'arte, i divoratori di letteratura, ma scarseggiano i "degustatori di fotografie" che non siano poi anche interessati a produrne di proprie in competizione, magari mutatis mutandis, con gli autori che dichiarano di preferire.

Si costituisce così un pubblico amatoriale di natura ambigua, spesso più concentrato sulle proprie produzioni che sulla tradizionale amatorialità per la forma espressiva preferita. Spendono soldi in tecnologia con grande generosità, attenti ad ogni più piccolo cenno innovativo dell'industria, ma si riservano di acquistare più in là un fotolibro, una monografia, un saggio sul fotografico o di approfondire in seminari, incontri e conferenze gli aspetti teorici e storici del fotografico. Corrono ad affollare le mostre dei mostri (sacri), ammannite con furbizia dal marketing di chi possiede le loro icone venerate, in genere provenienti da fotoreporter molto anziani, se non defunti. Eventi rassicuranti pieni di "belle fotografie" che per la loro distanza dalla contemporaneità mettono d'accordo le zie, quelle che fanno la fila anche alle mostre degli Impressionisti, con i nipotini, emulanti cacciatori di momenti, più o meno decisivi.

Nascono e fioriscono contest per far giocare le masse dei fotografanti, pensate persino come parodie della maratona olimpica. Fioccano le serate glam, con tanto di apericena cool, dove farsi notare con la sveglia al collo, sostituita da fotocamere delle marche più desiderate. Segno dei tempi? Non penso. Piuttosto peccato originale. Fin da subito, per un motivo che mi rimane misterioso, il fotografico ha fatto cagliare questa nuova genia di amatori-produttori, come altre arti non hanno saputo fare. Forse la facilità relativa di ottenere cose visibili, non per questo immagini, ma cose appunto? Forse anche altro. Resta il fatto che il peccato lo si continua a scontare con una incapacità del mercato del fotografico, quello autoriale, di fare massa sufficiente di amatori che vogliano investire il loro denaro non per emulare i loro beniamini, ma per avvicinarne, possederne, collezionarne, studiarne le opere. Questa è l'anomalia del fotografico.

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