Hopper a Milano

Milano, 2009.

Una bella fila di persone mi accoglie nel cortile di Palazzo Reale a Milano. Tutti in attesa, più o meno paziente, di vedere dal vero i capolavori di Edward Hopper. L'aspettativa è grande, però, come già mi era successo con la precedente mostra di Magritte, in questo palazzo finisco per consumare anche piccole delusioni.

Per dare a Cesare quel che è di Cesare, devo subito dire che sia l'accoglienza, sia l'allestimento, danno prova della solita positiva laboriosità meneghina. Tutto è stato fatto per il meglio. Il catalogo anche. Persino di più. Nel senso che alcuni dei pezzi più importanti realizzati da Hopper si possono vedere solo lì. Qui nasce il retrogusto amaro della mia delusione. La comunicazione mediale della mostra ha, almeno con me, lavorato "troppo bene". Una mostra intitolata "Edward Hopper" aveva fatto nascere nella mia fantasia sogni di gloria. Come, per esempio, quello di poter vedere un'antologica piuttosto completa dell'artista senza dover per forza volare negli States.

Errore, errore. In realtà vengono esposti i pezzi eccellenti, davvero pochi, della collezione del Whitney Museum di New York assieme a opere iniziali e minori, bozzetti preparatori, schizzi, davvero tanti. Intendiamoci, per approfondire la metodologia operativa dell'artista, questa mostra è importante. Dal mio punto di vista, fotografico of course, ho anzi avuto un'occasione per riflettere sull'importanza, a mio parere non ancora sufficientemente indagata, dell'uso della fotocamera nei progetti hopperiani proprio osservando in mostra alcune opere finite e gli studi relativi.

Persino un piccolo set predisposto da un artista contemporaneo per far giocare il pubblico al tableau vivant, cioè alla soddisfazione di "entrare" in una composizione famosa di Hopper, Morning Sun, dava in effetti lo spunto per ragionare sulle sue scelte a volte fortemente antiprospettiche. Del tutto insufficienti invece le postazioni informatiche, contenenti solo qualche notizia e immagine.

In sintesi, si tratta, a mio parere, di una mostra molto specifica e davvero utile solo per chi già conosca Hopper e desideri capirne meglio il percorso di costruzione del suo particolarissimo modo di dipingere. In questo senso sono ben contento di averla vista, ma forse mi sarei risparmiato qualche pullman di visitatori "giocondeschi" se solo l'agenzia di comunicazione avesse, per una volta, detto la verità sul prodotto in vendita.

Lo so, pretendo troppo.

P.S.- Dopo la pubblicazione di questo post mi è stato riferito da fonte affidabile che, alla faccia della "positiva laboriosità meneghina", la mostra è stata in realtà comperata "chiavi in mano" dal Comune di Milano al Whitney Museum di New York. Mentre però nasceva a New York come mostra dichiaratamente settoriale, dedicata al rapporto tra Edward e sua moglie, qui in Italia diventa il Grande Evento farlocco nel quale sono inciampato. Bravissimi, applausi a scena aperta...

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